Francesco Radaelli nel 1990, a sedici anni, aveva corso gli 800 metri sul filo degli 1:50, accarezzando quel muro per eccesso: 18 centesimi. Era una sera di luglio. A Bologna si teneva il Fidalestate, una manifestazione in cui atleti di categorie giovanili per deroga federale, potevano gareggiare insieme agli Assoluti. Le batterie erano sancite in base ai tempi di accredito, i primati personali, nessun criterio legato all’età. Rado, avrebbe corso nella prima serie, la più veloce. Il migliore atleta presente, vantava un 1:48:56, poi via via fino al suo 1:52:14, ottenuto due settimane prima smettendo di spingere negli ultimi cinquanta metri, in assenza di avversari che potessero metterlo in difficoltà.
In quel momento nessun coetaneo in Europa avrebbe potuto gareggiare su quei livelli.
In Italia, nella stagione, aveva vinto tutto senza mai tirare il rettilineo finale, come se fosse la cosa più naturale che potesse succedere. Senza gioia né coscienza.
Quella sera una lepre chiamata da Giulio, scesa appositamente daTorino, si era incaricata di portare il gruppo fino ai 500 metri, poi si era allargata per spegnersi sull’erba esterna al tartan. Le mani sui fianchi e lo sguardo alto, verso il treno che sarebbe arrivato a destinazione senza di lui. Due atleti delle Fiamme Gialle, avevano preso il comando fino ai 650 metri con una lieve flessione del ritmo impostato dalla lepre, quantificabile attorno al secondo ogni cento metri. Rado aveva recepito nel cervello e nelle gambe quel calo, era subentrato in testa a metà dell’ultima curva, facendo metri in più, inquieto, senza aspettare il rettilineo. Era affondato solo negli ultimi venti metri, risucchiato dai due atleti militari e da un giovane marocchino che di lì a pochi anni sarebbe stato maratoneta di livello internazionale. Rado dopo l’arrivo si era steso schiena a terra, scosso da tremori, con la faccia rigata di sudore. Giulio lo aveva raggiunto gridandogli il tempo nell’orecchio destro, mentre la lepre che aveva tagliato il campo, lo confermava dal sinistro. Rado non aveva ancora aperto gli occhi e teneva le dita intrecciate sul viso. Lo speaker della serata aveva dato il suo tempo, prima di quello del vincitore, sottolineando la sua età. Solo in quel momento Giulio si era reso conto che il viso di Rado luccicava di lacrime, non di sudore.
- Tutto a posto?
- È assurdo.
- Cazzo dici? Il tempo che hai fatto?
- La fatica.
- Ma sei scemo?
- Gli ultimi cento ho visto tutte le cose brutte della mia vita. Ho le formiche nelle gengive.
- È normale, è l’acido lattico. Domani passa, ti renderai conto di quello che è successo stasera, di quello che succederà… e avrai voglia di lavorare duro in pista. Sotto l’1:50 negli otto, la vita ha altri colori.
- Ne dubito.
- Vaffanculo.
- Sì. Vaffanculo.
Rado avrebbe corso ancora un paio di settimane, tredici allenamenti in tutto, poi per l’atletica sarebbe sparito. Sarebbe rimasto nei racconti, nella leggenda dei frequentatori della pista. Era lo stereotipo dell’atleta di talento smisurato, inadatto a ogni tipo di disciplina. Il buco nero di Giulio, il diamante gigante che gli era capitato sotto le mani, scappato ancora grezzo.
Rado aveva vinto due titoli lombardi di corsa campestre con due allenamenti settimanali. La mattina si presentava tardissimo, a poche decine di minuti dalla partenza in evidente deficit di ore di sonno e con gli occhi cerchiati di viola. Partiva senza quasi fare riscaldamento Nei pressi dell’arrivo si aggiravano, alternandosi di gara in gara, annoiate ragazze insensibili alle sue vittorie, schifate dall’ambiente, da tutto quel fango e quel sudore.
Rado a settembre avrebbe dovuto raggiungere un centro federale nel Lazio, Giulio aveva predisposto un programma di allenamento concordato con il professor ***.
Il suo posto sarebbe stato preso dalla lepre piemontese.
Rado si era occupato di public relation per discoteche e lounge bar, entrando in società per la gestione del primo Club Privè della zona, chiuso da un provvedimento della questura a due settimane dall’inaugurazione. Aveva fatto qualche comparsata in un programma televisivo pomeridiano. Un manipolo di pretendenti se lo contendeva in prove umilianti. Sedeva su un trono di velluto rosso e oro, con la mano sinistra reggeva il mento, assisteva impassibile al degrado delle femmine. Recitavano poesie, eseguivano balletti acrobatici, elaboravano fantasiose dichiarazioni d’amore. Per liquidare una concorrente che aveva interpretato un personaggio di Ibsen, Rado aveva detto sono un tipo sportivo, evito il teatro, a meno che non abbia problemi a prendere sonno. Le sue sentenze erano rette da una sana normalità, una semplicità contadina che negava ogni stravaganza. Ripudiava ragazze troppo vistose, a mammà non sarebbe piaciuta questa tutta pitturata e mezza nuda. Si rigirava tra le mani un crocefisso che spariva nel crepaccio dei pettorali. La mascella conteneva a stento un sorrisetto malevolo che riempiva il video. Gli occhi scintillavano, come quando correva ottocento metri in un minuto e cinquanta, ma erano ancora più scuri, punte di spillo ficcate in un baratro. Le ragazze si scioglievano in lacrime ai suoi rifiuti vagamente circostanziati e poco diplomatici. Il pubblico in sala applaudiva e rideva seguendo flussi umorali ordinati, ma in apparenza molto spontanei. Le donne di mezza età parevano adorarlo. Era apparso in un paio di film natalizi e le sue foto infestavano la stampa scandalistica. Il suo nome era entrato in un’indagine su un traffico di cocaina tra i Balcani e la Puglia, sua regione d’origine. Qualche settimana in carcere, poi un lungo periodo in comunità. Il recupero seguito passo passo dalle telecamere dello stesso programma che lo aveva incoronato re per una stagione. Molti pianti, buoni propositi recitati a giornaliste piacenti, raccomandazioni ai giovani. Nessun altro doveva cadere nel girone del suo inferno. Voci sempre più insistenti lo davano legato sentimentalmente al suo agente, una specie di budino di carne marcita che gestiva carne fresca da spacciare tra salotti e camere da letto. La notizia giustificava le reginette rifiutate. Un provvedimento di indulto gli aveva risparmiato altri gradi di giudizio processuale. Non so se Giulio fosse a conoscenza del segmento di vita di Rado dopo l’atletica. Ha sempre detto di non avere la televisione, quella scatola fa male a due cose –diceva- tutte e due anno due elle, la seconda è il cervello. Al campo se ne parlava, impossibile ignorare la storia, durante gli allenamenti più stressanti c’era sempre qualcuno che se ne usciva con Rado, sì, quello sta bene, la sa lunga lui, e noi qua a farci il mazzo attorno a ‘sta pista maledetta.