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Compagni che sbagliano?

E' un'espressione che mi rimbalza sempre più spesso negli ultimi tempi. Picchia in testa quando alla ribalta della cronaca salgono atleti caduti nella rete dell'antidoping. E' un rigurgito di anni lontani. Ero bambino, in Italia si sparava, il dialogo istituzionale sembrava impossibile, la militanza partitica ad alcuni andava troppo stretta. Qualcuno eccedeva nell'intransigenza e imparava a sparare. Qualcuno con gli stessi ideali si fermava prima, poco prima del baratro, ma non se la sentiva di condannare il “Compagno che sbaglia”, di denunciarlo. Capitava di difenderne le posizioni, fino a ospitarlo un paio di notti correndo guai seri. Lo scrittore Stefano Tassinari coniò un'espressione che sintetizza bene quell'imbarazzo morale: “Sbagliare dalla parte giusta”. Il parallelo che sto facendo è ardito, estremo, me ne rendo conto. Sto cercando di spiegare anche a me stesso perché non riesco a definire “delinquenti” gli atleti che fanno uso di Eritopoietina, GH e compagnia iniettabile. Sento una comunanza istintiva con tutti gli esseri umani che condividono la passione per questo sport così semplice, e nella sua semplicità così difficile. Con tutti gli atleti: tapascioni, middle class, eccellenze e campioni. Sopporto (a fatica) V.I.P che non farebbero mai la N.Y.M. senza un adeguato lavoro di ufficio stampa a enfatizzare le loro quattro ore e passa. Quindi nessun ostracismo assoluto verso gli atleti dopati, che fanno comunque vite d'inferno, preparazioni estenuanti per qualità e quantità di chilometri macinati. Spesso sono atleti sul confine tra mondo amatoriale e professionistico, una condizione che li espone a fatali tentazioni, “cani sciolti”, quindi esterni a ogni forma di protezione dai piani alti. L'Atletica è la parte “giusta” nel mio piccolo mondo e torno all'esempio sopracitato, dove tra persone che rivendicavano un comune sentire veniva a frapporsi un'insanabile crepa. Siringa e P38 a fottere l'equilibrio, per sempre. Non riesco a insultarli i bombati, non riesco a schifarmi di nessun atleta, non riesco a usare le stesse espressioni che ho trovato in molti blog dopo i recenti casi che hanno scosso l'ambiente dei runners. Non sono mai stato un fan di Barbi, ma temo che di soldi ne abbia fatti comunque pochi. Nonostante le iniezioni nella pancia chiuso nel cesso come un tossico. Nonostante i battiti cardiaci dilatati fin quasi a crepare nel sonno. Aveva una buona fisicità, come calciatore della Lucchese avrebbe evitato test antidoping seri e turni in fabbrica. Non sono un fan degli atleti miracolati da improvvisi picchi di performance. Quelli che dopo i trentanni diventano fenomeni nelle corse su strada portando in dote un modesto curriculum giovanile. Conosco l'inferno dell'atletica pur avendola praticata solo a livelli modesti. In questo sport non si inventa nulla, non c'è casualità o fortuna, la pista è sempre quattrocento metri e il cronometro non perdona. A qualunque livello. Non c'è spazio per la soggettività, per le balle, per le chiacchiere un po' cialtrone da bar dello sport. I risultati “incoerenti”, le escursioni di performance sono sospette, a meno che la storia personale dell'atleta non li giustifichi, ecco perché è sempre meglio non spargere veleno con superficialità. Sto cercando “la giusta distanza” per dire qualcosa di etico, ma esente da indignazione ottusa, per non essere né colluso, né inconsapevole. Sto cercando una via stretta e impervia. Non giustifico e non mi armo di moralismo, scelgo l'analisi e il disincanto, la pietà per la natura umana, la più complessa e imperfetta. Non ho bisogno di atleti mitologici che abitano favole epiche, devo far tacere il bambino che è in me, se voglio avvicinarmi alla verità. Ho ammirato atleti per la loro efficienza fisica, non posso fare a meno di seguire la Grande Atletica, i top runner, fanno ciò che piace fare a me, ai massimi livelli. Seguo i meeting e le maratone, guardo con una leggera riserva qualunque gesto atletico che si fa capolavoro. Voglio essere ateo fino in fondo, senza abbandonarmi al cinismo. Voglio informazioni, controlli antidoping random anche tra gli atleti amatori, nessuna tragedia, nessuna vittima sacrificale alla Pantani, ma nessun lassismo e nessuna pena definitiva, nessuna carriera chiusa al primo inciampo. Non pretendo che lo sport professionistico sia il mio paradiso incontaminato a tenuta stagna rispetto al marcio che attacca da ogni lato. Gli atleti professionisti sono le creature paradossalmente più fragili e insicure tra gli umani. Cadono in depressione dopo ripetuti infortuni, spesso non hanno costruito una “vita di scorta”. Avvicinati al momento giusto dal personaggio sbagliato possono cedere, come accade nelle dinamiche delle droghe classiche. Un tossico è un poveraccio. Non un delinquente. È una baratro, dà vertigini. È quel buco di disonore il cui orlo ha corteggiato di Cecco, prima di finirci dentro definitivamente. Avrebbe potuto concludere la carriera solo con una lieve ombra che il tempo avrebbe dissolto. Ma un fuoco gli bruciava dentro. Voleva rivivere la forza di Roma 2005, l'onnipotenza della prestazione importante, l'ebrezza ( una droga, questa naturale, un mix di endorfine e adrenalina ) di correre davanti, primo bianco tra i fenomeni africani, spiato dalle telecamere della RAI. Non ce la faceva a gareggiare natural e anonimo, a sentire le gambe fredde e secche come rami in inverno. Ha bruciato il tempo di un cerino. Ha scelto di giocare tutto, di rischiare l'ultimo colpo buono come il giocatore d'azzardo che non sa lasciare il tavolo al momento giusto. Ho pietà non schifo. Ha rischiato la sua salute, sputtanato una carriera di sacrifici in uno sport massacrante. Anche lui come me, come tutti, ha scelto questo sport per passione, non per soldi. Ha inquinato anche i risultati ottenuti in quella zona di carriera affrontata da dignitoso atleta e senza l'aiuto della farmacologia. Per questo merita almeno comprensione, senza furore giustizialista, nella speranza che la guardia sul problema rimanga alta. Altissima.

 

(articolo uscito su Correre di febbraio 2009)